A chiedere la condanna delle due imputate il pubblico ministero Buccarelli del Tribunale di Brindisi
FASANO – Una condanna per diffamazione secondo quanto previsto dall’articolo 595 del codice penale italiano. È quanto ha decretato il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brindisi, Tea Verderosa, nei confronti di due donne, D.A. di Mesagne e B.A. di Casalzuigno (Varese), per fatti risalenti al 12 maggio 2019 e commessi nei confronti di due professionisti fasanesi: l’avvocato Giuseppe Palazzo e l’assistente parlamentare legislativo Marco Mancini.
Proprio durante il 12 maggio del 2019, su un post pubblico in cui si manifestava contrarietà alla giornata della vendita delle azalee promossa dall’Associazione Italiana Ricerca contro il Cancro (AIRC), si era sviluppata sul social network Facebook una discussione in merito alla necessità, al contrario di quanto sosteneva il post, di aiutare la ricerca contro il cancro e dunque di supportare ogni azione utile a fornire risorse economiche a favore della ricerca scientifica. I due fasanesi, Palazzo e Mancini, manifestando pubblicamente la loro volontà di sostenere AIRC e la vendita delle azalee per dare un concreto aiuto alla ricerca contro le patologie oncologiche, sono stati insultati pubblicamente dalle due donne.
L’avvocato Giuseppe Palazzo, che ha difeso sé stesso e Marco Mancini, decise in accordo con quest’ultimo di formulare una denuncia nei confronti delle due donne, anche e soprattutto per la delicatezza del tema sul quale le stesse avevano utilizzato le frasi ingiuriose.
Più precisamente, entrambe le donne “attraverso commenti pubblicati sulla bacheca Facebook di C.A. – scrive il giudice Verderosa – offendevano la reputazione di Palazzo Giuseppe” mentre la sola D.A. (l’imputata residente a Mesagne) attraverso commenti pubblicati sul medesimo post “offendeva la reputazione di Mancini Marco”. Di qui la decisione di accogliere la richiesta del pm Gualberto Buccarelli e di condannare le due donne secondo l’art. 595 del codice penale italiano (commi 1 e 3) che prevede appunto il reato di diffamazione aggravata poiché espressa sui social network (Facebook, appunto) che in questo caso sono paragonabili al mezzo della stampa.
“Questa sentenza, come molte altre – commenta Marco Mancini – ci racconta che insultare gratuitamente qualcuno su un social network può portare a serie conseguenze per coloro che si sentono liberi, dietro una tastiera, di dire tutto quello che gli passa per la mente. Non sempre purtroppo, dall’altra parte, si ritrovano persone che non si scompongono e che sono pronte a denunciare: a volte capita di ritrovare persone fragili che, a seguito di quegli insulti, potrebbero compiere gesti drammatici. La storia, purtroppo, è piena di questi tristi esempi. Come già annunciato all’epoca, e ci tengo a ribadirlo oggi, ogni centesimo ricavato dal processo civile che ci apprestiamo ad incardinare con l’avvocato Palazzo, sarà devoluto proprio alla ricerca contro il cancro. Oggi mi piacerebbe solo poter fare una cosa: accompagnare le due donne in un reparto oncologico e mostrare loro perché è importante sostenere la ricerca contro il cancro”.
“La decisione del giudice – sottolinea l’avvocato Palazzo – mi trova pienamente soddisfatto. Nell’era digitale in cui viviamo il rischio è che un’offesa subita tramite social network possa provocare un effetto lesivo più consistente rispetto al passato, motivo per il quale è opportuno intraprendere tutte le vie possibili per tutelarsi dalla diffamazione subita. Non bisogna assolutamente permettere che la violenza verbale possa essere percepita come un’azione priva di conseguenze. Adesso incardineremo un giudizio civile, e chiederemo alle due donne un equo risarcimento per la diffamazione subita”.