Il Locus Festival fa nuovamente tappa a Fasano dove, dopo l’apertura con Whitemary, si canta l’equilibrio tra locura e impegno sociale
Fasano – Per scrivere di alcuni cantanti basta, effettivamente, l’epiteto di cantante o, al più, quello di cantautore. Sono immediatamente riconoscibili. Poi capita di trovarsi di fronte, a reggere un’ora e mezzo di concerto intrisa di ironia e denuncia sociale, uno come Willie Peyote che mette insieme rap, hip hop, alto cantautorato, una spolverata di rock e un bel pizzico di jazz e blues e allora il dubbio si insinua: come descriverlo? La sua bio su Instagram è senz’altro un buon indizio: “Nichilista, torinese e disoccupato perché dire rapper fa subito bimbominkia e dire cantautore fa subito festa dell’unità”.
Willie Peyote, al secolo Guglielmo Bruno, ha fatto tappa nell’arena di Piazza Ciaia ieri sera (martedì 17 agosto) con il suo “Mai dire mai – Tourdegradabile”, appuntamento del Locus Festival inserito nel cartellone Wow!Fasano messo a punto dall’Amministrazione comunale. In apertura, però, l’ha fatta da padrona Whitemary con le sue chicche di elettronica in cui ha riversato gli studi jazz, tra cui “Credo che è normale” e “Ti dirò”.
Il set ha lasciato spazio alla pazzesca All Done Band, formata da Luca Romeo (basso), Dario Panza (batteria), Daniel Bestonzo (tastiere synth), Enrico Allavena (trombone) e da Damir Nefat (chitarra), che ha reso memorabile la serata, spingendo ogni nota fin dal principio. Già con le prime di “Mostro”, infatti, il pubblico vibrava incontenibilmente alla ricerca di quell’equilibrio precario fra locura e impegno sociale.
A camminare su questo filo sottile c’è lui, Willie, che rivendica una musica politicamente schierata. Le barre che si susseguono rapide compongono degli ipertesti in cui musica e parole si alternano con ricercati effetti sonori e, talvolta, con campionature di voci altrui. Sono “espedienti” grazie ai quali espandere i confini dei suoi brani, strizzando l’occhio a diverse forme di spettacolo.
Per il rapper non c’è bisogno di inserirsi forzosamente tra i pezzi con riflessioni esistenziali, basta qualche battuta per dialogare con il pubblico e intensificare il flow del concerto. Le influenze del Signor G e di Faber sono evidenti. Il rapper torinese, come Gaber, è polemico e ironico: la dimostrazione arriva subito con “I cani”. Come De André invece, omaggiato con una riuscita versione de “Il Bombarolo”, riesce a rimanere libero e coerente con la sua musica, con il suo messaggio. Ecco perché, dopo pochi brani sull’amore (fugaci come fugace è l’estate), torna subito a una scaletta incazzata che infila, facendo definitivamente esplodere piazza Ciaia, tre pezzi tostissimi: “TmVB”, “Io non sono razzista, ma…” e “C’era una vodka”. Nel mentre il saluto a Gino Strada, perché «I diritti devono essere di tutti, se no sono privilegi».
La ballata con sfumature rock “Semaforo” ha lanciato “Mai dire mai (La Locura)”, brano che quest’anno gli è valso il premio della critica Mia Martini a Sanremo e la consacrazione a un pubblico sicuramente più ampio. Il monologo della serie “Boris” è la chiave interpretativa del pezzo. «Io parlo della locura, la pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. Perché ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte. Ci fa sentire la coscienza a posto. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte».
Le rime di Willie Peyote si sono poi inseguite per gli ultimi tre brani della scaletta: “Mango”, “Vendesi” e “Che bella giornata”. Così tante parole, velocissime, e non riusciremmo ancora a definirlo in 140 caratteri. È il caso di affidarsi di nuovo alle sue, allora, che mentre ricordava a tutti di vivere la propria libertà senza piegarsi a logiche immorali, cantava: Dovrei togliere il cappello / senza quello sono solo Guglielmo / Freddo fuori e caldo dentro tipo termos / Ma da fuori non si vede, da fuori non si sente / La gente non capisce e spesso, se non sempre, fraintende».
Speriamo che gli scroscianti applausi e la standing ovation siano stati il segno di un pubblico che non ti ha frainteso, Willie.
Fotoservizio a cura di Mario Rosato