Il fasanese Vittorio Lagalante è da vent’anni nell’azienda ospedaliera veneta, pronta a fronteggiare il Coronavirus
PADOVA – Medici, infermieri, operatori sanitari: sono gli eroi, gli angeli, i soldati in trincea in questa emergenza sanitaria Coronavirus. Ma sono soprattutto esseri umani che hanno bisogno di aiuto, e lo fanno raccontando le loro storie. La vera battaglia si sta combattendo in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Marche e Veneto. In quest’ultima regione svolge la sua professione da infermiere il fasanese Vittorio Lagalante, ormai da vent’anni a Padova dove esercita la professione.
Attualmente lavora nel reparto di Rianimazione dell’azienda ospedale Università di Padova con quindici posti letto per pazienti generalmente operati che necessitano di osservazione post operatorio, malati affetti da insufficienza respiratoria che necessitano di intubazione per la ventilazione con respiratori artificiali o solamente aiuto nella ventilazione con monitorizzazione.
Il tuo ospedale non è stato ancora interessato da casi di Coronavirus, ma che aria si respira in struttura? Siete consapevoli di ricevere prima o poi casi del genere?
«La struttura per la quale lavoro per adesso non contata numeri elevati di contagiato. Il nostro reparto di Rianimazione è tenuto “pulito” per continuare a ricevere pazienti che necessitano assistenza, evitando di bloccare il processo ospedaliero, cosa verificatasi nei vicini ospedali dove sono stati scalzati i pazienti in attesa di intervento. Ora si operano solo le urgenze, il resto è tutto rinviato per cercare di salvare il salvabile. Noi siamo ancora i fortunati, ma che sanno che da un giorno all’altro potranno trovarsi a fare i conti con un paziente infetto non gestibile altrove».
Un mese fa i primi casi di Coronavirus nel padovano. Come è cambiata la vita da allora in quella zona?
«Di solito queste situazioni di emergenza le abbiamo lette sui libri di storia o le sentiamo al telegiornale e coinvolgono altri Stati ed altre persone. A distanza di un mese dal primo caso a Vo’ Euganeo, sui colli di Padova, posso spostarmi – come tutti gli italiani – solo per necessità lavorative. La vita è cambiata perché si vive nell’incertezza e nel dubbio di quanto tutto ciò possa durare. Ma il mio lavoro non cambia e la voglia di far bene neanche. Oggi viviamo come se fossimo in guerra, col coprifuoco. Hanno limitato le nostre uscite, le nostre abitudini di vita sono cambiate perché dobbiamo restare a casa per non cercare di contagiarci a vicenda».
Parlando con i tuoi colleghi infermieri in trincea, cosa ti raccontano? Come vivono questi giorni?
«Alcuni di loro li sento di sovente negli ultimi giorni, sono quelli che più di me si trovano a che fare con il Coronavirus. Chi lavora in pronto soccorso, chi in Rianimazione, chi era in un reparto che dall’oggi al domani sono stati rivoluzionati per ospitare posti letto dedicati ai nuovi pazienti. Di solito d’estate riduciamo i posti letto per permettere le ferie al personale, ma in questo periodo sono stati aumentati per permettere la vita e la guarigione agli ammalati. Turni massacranti per i miei colleghi, turni di riposo saltati, a volte senza tutti i presidi di sicurezza visto l’uso spropositato fatto che ha causato lo svuotamento dei magazzini e della scorta che c’era a disposizione. Qui da noi come in tutta Italia».
Voi infermieri a Padova state vivendo situazioni di emergenza per mancanza di dispositivi di sicurezza?
«Per fortuna no, giorno per giorno ci forniscono di presidi, pochi, ma ci sono. Sta a noi farne buon uso».
La tua famiglia qui in Puglia è preoccupata?
«All’inizio da fuori sede pugliese, la mia famiglia e chi mi conosce mi chiamava e mi scriveva spesso perché le notizie che trapelavano dalla televisione non erano rosee, tutt’altro. Poi hanno cominciato esserci i primi morti, aumentati a vista d’occhio. Tranquillizzavo chi conoscevo, dicendo che ero vicino al problema ma non lo stavo toccando per mano in prima persona, almeno per il momento. Ogni giorno è un nuovo giorno e tutto può cambiare. Lo scopro andando a lavoro ed entrando nel mio posto di lavoro».
Tu sei preoccupato per quello che potrebbe accadere qui in Puglia?
«Se prima il problema era contenuto in alcune città del nord, battezzate città rosse, da qualche settimana il colore rosso è diventato il colore dell’Italia. Siamo in quarantena e gli italiani sono chiamati al sacrificio di restare in casa per combattere il nemico che incombe nel nostro Paese. Adesso anche in Puglia il Coronavirus è presente, adesso sono anche io preoccupato: scrivo, chiedo a chi voglio bene per sapere se stanno bene. Sinora i numeri non sono preoccupanti e spero resti così».
Hai mai pensato di lasciare quella zona per tornare dalla tua famiglia?
«Ho scelto la mia professione perché mi piace mettermi a disposizione di chi è più sfortunato di me. Scappare da qui come la maggior parte ha fatto? Mi è stato chiesto, ma non l’ho mai pensato. Non voglio farlo, non posso farlo perché andrebbe contro i miei principi. Tornando a casa dopo il mio turno, sui balconi della mia città leggo diversi cartelloni con la scritta “Andrà tutto bene “ . Ci credo e se posso essere d’aiuto lo faccio con piacere. Con l’aiuto di tutti e con il mio contributo voglio aiutare i miei colleghi che nell’ultimo mese stanno combattendo come fossimo in guerra: una battaglia senza armi, ma con mascherine e guanti. Magari avremo il viso e le mani segnate dall’usura a fine giornata, ma se può servire ben venga. La sera posso dire di essere stato utile alla comunità donando professionalità, un sorriso, coraggio e speranza tra gli ammalati».
Cosa pensi di coloro che, incoscientemente, lo hanno fatto?
«Non biasimo e critico chi è scappato. Posso capire la loro paura e come si sono sentiti dopo l’uscita del decreto che ha cambiato la nostra vita. Gli è mancata la terra sotto i piedi immagino. Hanno corso però un grande rischio, ovvero quello di portarsi dietro l’ombra nera che sta interessando il nord. La sanità giù non è efficace come quella del settentrione, e pensate noi siamo in ginocchio. Non voglio pensare a cosa potrebbe succedere tra gli ospedali meridionali qualora il Coronavirus dovesse prendere piede sul serio. Non possiamo permetterci di mettere a rischio i nostri genitori, i nostri deboli anziani, gli amici e chi conosciamo al sud a causa di una nostra paura. Non ci sono pozioni magiche o farmaci per ora che bloccano il virus, ma oggi sappiamo che la porta di casa è l’unico nostro alleato. So che è difficile inventarsi una nuova vita tra le mura domestiche, ma il sacrificio ci ripagherà con la medaglia della vita».