
Il giornalista ragusano sotto scorta da cinque anni ha presentato il suo ultimo libro nell’ambito del Mare Magnum Festival
FASANO – Paolo Borrometi è un uomo genuino. Impetuoso nel suo senso di giustizia, nel suo essere scrupoloso e nell’attaccamento alla professione di giornalista, rivendicando il suo diritto all’articolo 21 della Costituzione. «Ma non sono un eroe perché rivendico la mia paura» ha dichiarato il giornalista ragusano che ieri (27 luglio) ha presentato il suo ultimo libro “Un morto ogni tanto” – nell’ambito del Mare Magnum Festival sotto la direzione artistica di Michele Ido – davanti a un folto pubblico intervenuto alla Casina Municipale della Selva di Fasano. Presenti molte personalità dell’arma dei Carabinieri, tra cui il generale Manzo, comandante della legione “Puglia” che ha portato anche i saluti del generale del corpo, Giovanni Nistri.
Borrometi è stato intervistato da Rita Dalla Chiesa, che in apertura di serata ha ricordato il recente efferato omicidio del vice brigadiere Cercello a Roma, e da Donato Mancini, che ha ripercorso la storia professionale del giornalista. Dai primi pezzi pagati pochi euro, all’aggressione subita nel 2014 che gli costerà una menomazione fisica, seguita da minacce varie e un furto in casa, fino alla creazione del suo sito indipendente LaSpia.it (appellativo con cui veniva spesso infamato pubblicamente) e all’assegnazione, sempre nel 2014, di una scorta, a proposito della quale Borrometi ha dichiarato: «ho l’orgoglio di stare accanto a questi cinque carabinieri. Se possiamo essere liberi è grazie a tutti coloro, uomini e donne, che indossano una divisa».
Una scorta che si è resa necessaria dopo che il giornalista con le sue innumerevoli inchieste ha messo il dito nella piaga della mafia siciliana dell’est, definita «la provincia babba», ma non per questo meno pericolosa. Prima fra tutte l’inchiesta sul Consorzio Igp del pomodorino pachino, dello sfruttamento e della violenza celati dietro la sua filiera. E grazie a una intercettazione («Ogni tanto un murticeddu, vedi che serve. Per dare una calmata a tutti»), viene sventato un attentato a suo danno e a quello della sua scorta.
Borrometi è un uomo che convive con la paura costante – e come potrebbe essere altrimenti: ci sono quindici processi per mafia da lui innescati in attesa di giudizio – che a suo tempo ha vissuto l’isolamento, da cui è stato proprio il Presidente della Repubblica Mattarella a tirarlo fuori, conferendogli l’onorificenza di Cavaliere e ponendolo di colpo sotto i riflettori. Proprio a questo proposito il giornalista ha sottolineato quello che sembra essere un filo rosso che lega tutti i colleghi che come lui vivono sotto scorta, cioè l’importanza del “noi” e del “fare squadra”. Anche se spesso è stato ed è ancora preso dall’impeto di mollare, soprattutto nei momenti di maggiore disperazione, salvo poi ripensarci. «Non lo faccio per il senso di responsabilità verso la mia professione di giornalista, perché sono un cittadino che non si è voltato dall’altro lato».
Il libro si conclude con un’accorata lettera ai ragazzi, che rappresentano la sua ancora e che sono il presente prima ancora che il futuro del nostro Paese. È proprio a loro che il coraggioso cronista chiede di non cedere mai alla cultura del compromesso e di lottare per la libertà di pensiero, la stessa per cui egli ha sacrificato un pizzico di quella sua personale.
