
Il Maestro del cinema italiano si è raccontato al pubblico fasanese, in occasione della presentazione del suo romanzo “L’orto americano”, diventato un film che sarà nelle sale nel 2025
FASANO – Pupi Avati è uno dei maestri del cinema italiano, difficile da incasellare in un genere.
Sì, sperché nella sua lunga carriera li ha sperimentati quasi tutti: gotico, horror, dramma, commedia e biopic.
Ma sempre con lo stile che lo ha reso unico, denso di una poetica minimalista e di nostalgica fanciullezza.
Avati è stato ospite ieri (30 novembre) al Canne Bianche Lifestyle Hotel di Torre Canne, nel terzo appuntamento della rassegna “LibriAmo…tra le masserie”, organizzata dal Mondadori Point locale di Laura De Mola.
A dialogare con il regista bolognese, che ha presentato il suo ultimo romanzo “L’orto americano” (Solferino Editore), è stata la giornalista di Telenorba Maria Liuzzi.
In apertura i ringraziamenti ai padroni di casa di Laura De Mola, che non ha nascosto la soddisfazione di essere finalmente riuscita nell’intento di avere Avati in rassegna.
«Nel romanzo – ha spiegato il regista ottantaseienne – il protagonista è chiamato semplicemente Lui, ed è la prima volta che rivelo qualcosa di intimo: il mio rapporto con i miei cari che sono defunti».
Rapporto ereditato dalla sua cultura contadina, densa di favole “orrorifiche”, (come quella del prete-donna citato nel suo splendido “La casa dalle finestre che ridono”) e di una religiosità arcaica.
«Col passare degli anni – confessa Avati –, ho acquisito una serenità ritrovata mediante questa sorta di “rosario dei morti”, cioè l’elenco dei morti e me più cari».
Come c’era da aspettarsi, il regista si è lasciato andare al racconto di una serie di aneddoti – tra il comico e il commovente – della sua lunga vita, personale e artistica.
Dal suo essere conservatore e tradizionalista, all’incontro con il talento “invidiato” di Lucio Dalla, fino al ruolo fondamentale dell’amore, una sorta di tessera di puzzle, unica, di cui si va alla ricerca durante la propria vita.
Tanti e inevitabili i riferimenti al Cinema, il suo mondo. Cinema che gli ha permesso di inventarsi la sua vita, di rendere l’inverosimile verosimile.
E di continuare a inseguire un sogno da realizzare, perché, come ha rivelato al pubblico fasanese: «ho sempre la sensazione di dover fare ancora il film della mia vita».
Perché il mondo è ancora possibile, sebbene la vecchiaia lo stia riportando – in una sorta di viaggio ellittico – prepotentemente alla vulnerabilità e alla nostalgia del suo bambino interiore.
E, alla fine del viaggio, poter risalire ancora una volta le scale di Via San Vitale 51 a Bologna per ritrovare, seduti al tavolo della cucina, sua madre e suo padre.
Fotoservizio di Francesco Schiavone.


















